Castrovilli si raconta: "La mia Canosa, i sacrifici di papà e i chilometri con lo zio: ma io resto sempre me stesso"

Il gioiello viola a Sport Week: la mia forza è non cambiare mai. Cosa non mi piace del calcio? Ci metterei più musica

La sua Canosa di Puglia, la famiglia, i chilometri in macchina con lo zio per inseguire il suo sogno. Attraverso Sport Week, l'inserto settimanale della Gazzetta, Gaetano Castrovilli si racconta: “Devo ancora realizzare - dice di se stesso - Per dire: faccio il mio primo gol al Milan, la squadra per cui tifavo da bambino. Il giorno dopo avevo già dimenticato. Forse è proprio questa la mia forza. Non so se sia spensieratezza o incoscienza. Non riesco neanche a capire. Però questa cosa mi aiuta tanto, perciò quando mi guardo allo specchio vedo ancora il ragazzo che ero prima. Che ragazzo ero prima? Umile, sorridente e disponibile. Non c’è pericolo che cambi: vengo dalla strada e non intendo rovinarmi la reputazione per quattro soldi in più. Arrivo da una famiglia di lavoratori, gente semplice che mi ha insegnato a tenere i piedi per terra sempre, anche se la ruota inizia girare veloce e per il verso giusto. Come mi immaginavo quando ero bambino? Non ci ho mai pensato, vivevo alla giornata esattamente come oggi. Anche adesso non penso mai al futuro, non mi piace fare programmi a lunga scadenza. Sono fatto così e forse dipende anche dal fatto di essere cresciuto in una famiglia è costretta a pensare alloggi e mai al domani. Cosa mi dice mia madre? Non parla piange. Guarda le partite in televisione, ripensa ai sacrifici che tutti insieme avevo fatto affinché io diventassi un calciatore e piange. Se qualcuno mi ha mai invitato a smettere? Per come sono fatti non lo hanno mai detto e mai lo avrebbero fatto. Sono persone orgogliose e pur di far stare tranquillo un figlio e permettergli di raggiungere i suoi obiettivi sono disposti a rompersi la schiena. Piuttosto fui io che a 12 anni volevo smettere perché mi faceva male vedere quanta fatica fa ci sono i miei in tutti sensi per consentirmi di giocare a calcio. Fu proprio mio zio a convincermi a non mollare. Cosa mi basta per essere felice? Un piccolo gesto, un pensiero. Anche perché sono uno che preferisce dare piuttosto che ricevere. A mia madre e a mio padre non ho mai detto “vi voglio bene“, ma glielo dimostro. Come? Sfottendoli. Ogni volta che li prendo in giro capiscono quanto affetto provi per loro. Esprimo i miei sentimenti sempre in una maniera concreta. A luglio di un anno fa papà era ricoverato in ospedale. Il giorno prima che uscisse gli presi un cane, un bulldog. Per fargli una sorpresa gli dissi che non sarei potuto passare a salutarlo perché dovevo rientrare a Cremona. Si incazzò veramente: “Ma come, io torno a casa e tu non ti fai trovare?“. Fatto sta che la mattina dopo aprì la porta e mi trovò ad aspettarlo con il cane in braccio. La danza? Mio padre per un periodo ha fatto il dj mi ha trasmesso la passione per la musica. Mettevo su la musica e ballavo scalzo sul tappetino oppure lo facevo con una bambina che abitava di fronte. Fu per questo che a sette anni mi iscrissi a danza classica, durò un anno e mezzo e lasci perché ero l’unico maschietto. Le parole di Antognoni? Mi sono scivolate addosso. Antognoni e Firenze, la ringrazio però finisce qui”.



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